Bathory
- fahrenheit2022zp
- 19 dic 2022
- Tempo di lettura: 8 min
II.
Dalla scomparsa di Aladar e la sua famiglia, mio fratello cambiò. E non fu l’unico.
La mattina dopo quella pietosa scena ci rendemmo conto della scomparsa ma
nessuno di noi aveva effettivamente il coraggio di andare a controllare. Sapevamo
bene cosa fosse successo, anche se i segni potevano far presumere altro ad un
osservatore poco attento. Andammo, come ogni altro giorno, a lavorare nel terreno
a ovest del villaggio.
Alcuni speravano nel fatto che si fossero nascosti nella piccola capanna che stava tra
il villaggio e l’inizio della boscaglia; infatti, si mossero subito in quella direzione.
Erano Jòska e, sorprendentemente, anche il vecchio Bence, uno degli uomini più
anziani del villaggio, aveva all’incirca 39 anni. Sebbene il tempo non segnasse in
modo così evidente i pochi altri uomini vicini, per eccesso o difetto, alla sua età,
Bence era diverso. Il passaggio del tempo nel suo volto era molto più evidente: le
rughe solcavano il suo volto, la barba grigia e i corti capelli bianchi che poco
mantenevano della sfumatura nera che aveva un tempo. Suo padre e sua madre,
come lui, erano nati, cresciuti e morti qui. Furono loro tra i primi a sparire da quanto
mi hanno detto.
Jòska invece era un giovane che si intimoriva ripensando ad ogni scomparsa, faceva
strampalate teorie con la sua compagnia sulle legioni di demoni provenienti dal
castello. Si riunivano per parlarne alcune sere, prima del crepuscolo, quando il bosco
inizia a farsi più tetro e buio, in modo da non farsi scoprire. Non dicevano mai dove
andavano o perché lo facevano, però si poteva sempre notarli andare lungo la
strada nord, prendere la deviazione a sinistra facendo la curva andando verso la casa
di Flora, la vedova, e da lì prendevano un sentiero che portava nei boschi vicino alla
chiesa. Lo facevano di proposito di farsi notare, era evidente, anche loro si
spaventavano a farlo, infatti tornavano subito dopo il tramonto.
I due dissero che erano preoccupati di un buco che avevano trovato, dai cui
potevano entrare dei fagiani o altre bestie a rosicchiare gli strumenti che tenevamo
lì. Ma noi tutti sapevamo cosa li muoveva e ne avemmo la conferma quando
vedemmo Jòska tornare con un volto di pietra e Bence con gli occhi lucidi e un volto
arcigno.
Li guardammo tornare incuriositi, per quanto la gente come noi possa apparire
incuriosita. In particolare, guardavamo tutti Bence. Lui ne aveva vista di uomini
sparire e nessuna di quelle perdite lo scosse in modo così evidente. Prese la vanga e
iniziò il suo solito lavoro con furore e il volto arcigno, come stesse colpendo il
terreno, sfogando la sua rabbia e violenza. Noi lavorammo come al solito.
Il terreno era brinato, la terra che spostavamo con le nostre vanghe era pesante,
compatta. Le radici erano cresciute molto nel lato nord-ovest e dovevamo tagliarle
con i coltelli. Quelli nella capanna erano arrugginiti e sporchi, chi non li possedeva di
sua proprietà doveva fare molta attenzione a non tagliarsi, per questo motivo
sistemavamo noi quelle più difficoltose, e se in quel momento non eravamo a
disposizione, prendevano due pietre e spezzavano le radici mettendole in mezzo a
queste, colpendo con forza.
Finimmo di lavorare l’appezzamento di terra nel pieno del pomeriggio, quando il
sole era ormai vicino a calare, solo allora ci concedemmo il lusso di mangiare.
Il freddo penetrante sembrava congelare le nostre ossa, ci rallentava nei movimenti
e nel pensiero. Quei giorni, come ogni altro della nostra vita, la sensazione di
impotenza ci faceva sempre da inseparabile compagna.
Allora trovavo conforto solo nell’immersione e nella fuga che una qualunque
narrazione o testo poteva donare, dal condividere questo piacere con mio fratello.
Nostra madre sarebbe fiera di lui. Sono addolorato dal fatto che non possa vederlo.
Ogni giorno riuscivo a trovare conforto in ciò, nonostante il dolore e l’amarezza. Fino
a oggi.
Arrivato a casa pensai di trovare Julian, come al solito, che mi attendeva per la
lettura. Non lo trovai. La stanza era vuota. Controllai se fosse nella stanza a fianco,
sul letto, magari a dormire, ed era vuota. Uscii di casa per vedere se era nel prato
che dava sui campi, dato che alle volte si sedeva lì a leggere. Anche lì non c’era nulla.
Cominciai a chiamarlo, con voce sempre più alta, fino ad urlare. Il panico crebbe nel
mio animo fino a dominarlo. Mi ritrovai ad urlare, con il fiato pesante e le lacrime
agli occhi, il sudore che iniziava a colare dalla fronte, le gambe che tramavano
irrefrenabilmente. Non riuscivo a pensare, dentro la mia mante albergava solo la
paura. In quel momento non riuscii a non pensare alle passate memorie che avevo
creato con Julian. In particolare, mi ricordai di quando gli spiegai che per Platone è
centrale mantenere la razionalità a dispetto dei sensi. Ricordando ciò mi imposi di
essere razionale. Riottenuto il controllo del mio respiro, la mia anima si sentii più
forte. Dovevo rimanere calmo e usare la razionalità. Era raro che i bambini
sparissero, ma era già capitato più volte, quindi non era possibilità ignorabile;
tuttavia, ricordai che lo avevo incoraggiato all’indagine su ciò gli altri dicevano,
poteva essere andato a parlare con qualcuno della cosa, e probabilmente i curiosi
erano rimasti davanti alla casa di Aladar, a causa dei segni insoliti. Mi diressi subito
nella casa ormai abbandonata. Corsi lungo la strada sud, e imboccai il sentierino a
destra, e fu allora che vidi la casa, e Julian accovacciato davanti i frammenti della
porta, da solo.
Mi avvicinai. Il rumore della sottile coltre di neve schiacciata dai miei passi era
perfettamente udibile, sapeva che mi avvicinavo. Non si voltò a controllare chi fosse.
Il suo sguardo era fisso sull’interno della casa. La prima cosa che pensai di voler fare
se l’avessi trovato era di gridare e urlare la mia rabbia, di non farmi preoccupare, ma
quando lo vidi cambiai immediatamente disposizione d’animo. Avevo visto molte
volte quello sguardo spento, cinico e desolato. Giunto alle sue spalle, lo chiamai e
non rispose, nemmeno mi rivolse lo sguardo. Lo richiamai, e ottenni la stessa
reazione. Allora gli misi una mano sulla spalla, per poi mi accovaccia e mettergli
braccio sulle spalle per stringerlo a me. Restammo in silenzio per un po’, mentre io
guardavo il suo sguardo fisso sulla casa. Quello sguardo che già avevo visto così
tante volte, e che talvolta anch’io adottai.
Dopo qualche momento ruppi il silenzio:<<So molto bene cosa stai pensando, e
anche quello che vuoi fare. Se credi di sapere qual è la risposta alle tue domande, ti
anticipo che non è così. Rimanendo qui non c’è modo che tu possa capire qualcosa.
Le nostre azioni non conteranno nulla, come le nostre parole. Ciò che ora possiamo
fare è andare avanti finché ci è concesso. So che vuoi parlare, e lo faremo, ma non
qui. Forza, seguimi.>>
Lui non si mosse, ma disse:<<La porta è a pezzi, e sono scomparsi in 7. Non è mai
successo nulla del genere giusto? È difficile credere che gli altri abbiano torto
quando parlano di mostri e demoni ora. Anche nella Bibbia ci sono simili esseri. E se
non fossero solo metafore? Forse sono qui davvero, e come possiamo dire che non
ci sono?>>
<<Capisco tutto quello che provi. Ma qui non c’è più nulla, mai più. Anche se con
questi dubbi e questa paura, dobbiamo continuare. Se devi per forza uscire lo
capisco, ma avvisami prima. Senza di te sono finito, lo sai? >>
Lui mi guardò con un lieve sorriso triste, in quel piccolo volto pallido, le palpebre che
lentamente calavano sulle pupille marroni chiaro.
<<Scusami. Andiamo, mi sento così stanco… >> disse sbadigliando.
Sapevo che l’ansia lo stava divorando, ma stava cercando di nasconderlo, di
sembrare il solito ragazzino perso nei pensieri e in fantastiche avventure. Non ci
badai e ricambiai il sorriso.
Ci alzammo, scendendo lungo quella breve discesa che riportava al cardo, mentre
tenevo delicatamente il suo braccio. Era ormai il crepuscolo quando ci
incamminammo. Le tenebre stavano calando sul villaggio e tutta la terra circostante.
A illuminare la via c’erano le lanterne appese agli usci delle porte e la luce fioca delle
candele che proveniva dalle finestre.
All’incrocio trovammo, seduto su una sedia, ad appuntire un paletto con un crosso
coltello, Fabian, il cui fischiettio si interruppe quando ci vide passare. Fece un breve
gesto con la mano accompagnato da una specie di grugnito. Ricambia il saluto
chinando lievemente il capo.
Passato l’incrocio sentimmo dietro di noi passare il carro, che non era ancora
arrivato all’incrocio. Ci voltammo a guardare, Julian solo un istante, mentre io rimasi
più tempo fermo, perché vedi due dettagli, uno dei quali la mia abitudine non
trovava risconto e di cui ora non attribuisco più la mia stanchezza o qualsiasi
miraggio.
Il primo dettaglio, molto meno sconvolgente e ben più logico del secondo, era lo
sguardo spaventato del soldato, che scrutava la fine del decumano, pronto a girare a
destra per prendere il sentiero e inoltrarsi nel bosco avvolto dalle ombre.
Il secondo dettaglio fu quello che mi trattenne e mi paralizzò dal terrore.
Da tempo i ragazzi della compagnia di Jòska dicevano di aver visto una figura
incappucciata che si aggirava nei boschi, facendosi vedere tra il confine della radura
e i campi. Quella figura incappucciata, vestiva un lungo mantello giallo, il cappuccio
era tanto ampio da gettare un’innaturale ombra sul volto, completamente nero,
mascherato dal buio. Nessuno diede mai peso alle parole sussurrate da questi
sciocchi, che mentre ne parlavano, avevano il viso rosso per la vergogna, e infatti ne
parlavano poco e a bassa voce.
Ebbene confesso di aver ritenuto sempre degli sciocchi quei ragazzi, dato che era
evidente che non sapevano cosa stessero dicendo. Ma giuro che quando il carro
passò oltre l’incrocio, là dove un istante prima non c’era nulla, vidi quella figura
incappucciata di cui Jòska parlava, con il suo lungo mantello dal colore giallo appena
distinguibile a causa dell’oscurità. La figura era alta quasi cinque cubiti, nella sua
innaturale stazza, il capo chino, posto sotto il cappuccio che proiettava un’ombra sul
volto invisibile, che però sentivo bene che mi stava scrutando, come se lo sguardo
devastante proveniente dagli occhi invisibili mi penetrasse l’anima come un ferro
rovente.
Accanto all’ombra che nascondeva il volto nella sua totalità, notai una radice che si
ergeva appena dietro la sua testa, che si muoveva in modo innaturale: si stava
attorcigliando su sé stessa a spirale, con un movimento lento, chiaro nel suo essere
macabro. Quella che vidi a sinistra della sua testa non era l’unica, poiché ve n’erano
sette in totale, che compariva da sotto il mantello, ai piedi, e altre ancora erano
comparse ai suoi lati e alle spalle. Le radici, somiglianti a tentacoli, continuavano nel
loro assurdo movimento, inesorabili e tremende quanto inspiegabili.
Fui terrorizzato e stregato dalla vista di quella figura, e il mio corpo e la mia mente
erano paralizzati, incapaci di alcuna reazione, anche di realizzare consciamente del
fatto che da sinistra, proveniente dalla strada, era stato proiettato un sottile fascio
di luce che andò a coincidere con il punto in cui l’essere era posizionato.
La sensazione che la figura portava alla mia mente era diversa da ogni altra provata
prima d’ora. Ciò che mi comunicava era come una spirale in cui stavo per essere
risucchiato, che mi avrebbe portato verso un livido inferno di nulla infinito. Come se
mi stesse attendendo: sentivo che la triste disperazione di quello sguardo, freddo
come la morte, mi portasse via ogni energia, tanto che la sensazione provata dalla
mia mente fu indescrivibile. Non potrei compararla a niente di concreto, tant’è che
ho difficoltà a descriverla. La cosa che più si può avvicinare allo stato in cui la mia
mente era entrato fu come di essere risucchiato in quella spirale di nulla, che con
l’abbandono delle mie forze, non potessi in alcun modo ribellarmi o opporre
resistenza a quel processo inevitabile.
Sebbene la quantità di informazioni da me scritta sia elevata, e possa far pensare
che il contatto visivo fosse stato assai prolungato, la mia paralisi durò per pochi
attimi, ma che sembravano interminabili, come se il tempo stesso si fosse fermato
affinché quello sguardo penetrante e infinitamente oscuro potesse lacerare la mia
anima nel modo più efficiente possibile.
Fui rinsavito dal richiamo di mio fratello, il quale nel mentre si era allontanato di tre
passi da me. Mi voltai ancora in direzione del bosco ma la figura era sparita.
Per questo fui inizialmente indotto a pensare che la ragione di tale visione fosse
riconducibile alla stanchezza.
Incuriosito, mi chiese perché il motivo per cui avevo iniziato a scrutare la foresta.
Mentii, dicendo che avevo visto un capriolo. E per rinforzare la mia menzogna, gli
raccomandai ancora una volta di non inoltrarsi nel bosco per il fatto che se le prede
sono libere, li sono anche i predatori.
Dalla letteratura imparai anche come mentire. Mi pento di averlo fatto ora.
Davanti alla disperazione, e alla consapevolezza di ciò che mi attende, mi rendo
conto che lui aveva capito molto meglio di me cosa andasse fatto, ma prima di
questa della spiegazione di questa vicenda, invito i lettori ad attendere, poiché altre
tristi vicende nella mia breve storia su questo mondo precedono quella appena
menzionata.
Tornati nella nostra dimora, accesi un fuocherello nel piccolo cerchio di pietre in cui
facevamo ardere la poca legna.
Feci leggere poche righe del quinto libro della Repubblica a mio fratello, fermandolo
occasionalmente poiché dovevo spiegare e far capire le cose che erano scritte, ma le
mie capacità mentali erano notevolmente ridotte quella sera.
Mi giustificai con Julian, attribuendo la mia incapacità alla stanchezza. Gli dissi che
avremmo ripreso la sera successiva. Mangiammo le verdure bollite che preparai e,
detta la preghiera -la cui utilità era ovviamente nulla, e non erano pochi a pensarla
come me- consigliataci dal parroco per allentare il male e le possibilità di scomparsa,
andammo a dormire.
Il vero motivo della mia scarsa capacità mentale in quel momento, come avrete ben
capito, caro lettore, non fu dovuta alla stanchezza, ma dal tormento della figura
prima vista, che quella notte mi tormentò anche nel mondo dei sogni, per quelle
poche ore che riuscii a dormire.
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